Una pioggia di infortuni sta vessando le franchigie NBA. Così tanti, e così presto, non era mai successo.

Alcuni riguardano giocatori di notevole rilievo. L’Injury Report vi darà conto dei guai fisici capitati ai giocatori più importanti, senza dimenticare alcuni dati generali che impongono una riflessione.
In preseason ogni squadra ha un roster di una ventina di giocatori: sono circa 600 quelli che sudano nei vari camp di preparazione. Attualmente sono 92 gli iscritti alla Injured List delle formazioni NBA, cifra che sfiora il 15% del totale. Sottraendo gli infortuni che prevedono un recupero immediato o quasi e le assenze dovute a motivi “personali”, il numero scende a 41, preoccupante in ogni caso: perché coinvolge mediamente più di un giocatore per franchigia, e perché annovera recuperi andati più lenti del previsto da infortuni della passata stagione (per esempio Kelly Olynyk dei Celtics), operazioni con strascichi imprevisti (Tyreke Evans dei Pelicans), e, ovviamente, gravi infortuni nuovi o nuovissimi (Ben Simmons di Phila, Reggie Jackson di Detroit, Kris Middleton dei Bucks), che impediranno o mettono in forse la partecipazione al season opener ma anche alla stagione intera.
Accanto ad infortuni classici dei cestisti, come i legamenti del ginocchio o della caviglia, la lesione del tendine d’Achille o la capsula rotatoria della spalla, sta significativamente aumentando la frequenza di problemi che possiamo chiamare cronici ai tendini, e, soprattutto, quella di infortuni al piede. Il piede è zona assai delicata, non sempre si può intervenire rapidamente con la chirurgia, tanto che spesso si prova a sistemare tutto col riposo. Joel Embiid è stato senza giocare due anni, e si è sottoposto a plurimi interventi prima di vedere finalmente il campo in questa preseason. Nella stessa disgraziata Filadelfia si è infortunato al piede Ben Simmons, l’Uomo della Speranza, che si è operato la scorsa notte, dopo 4 giorni di attesa: 8 settimane il responso. Cameron Payne, pg al secondo anno di OKC, ha quasi lo stesso infortunio di Simmons (quarto invece che quinto metatarso) ma ancora non si è deciso tra chirurgia o recupero “passivo”. Infortunio al piede anche per Pekovic, out per la stagione, McRoberts (Heat, recupero non stabilito), Deyonta Davis (Memphis, speranze per l’opener), Meeks (Magic, metà Novembre), Caris LaVert (Nets, vicenda simile a Embiid, forse salta la stagione). E’ significativo notare che 4 dei giocatori citati (LaVert, McRoberts, Pekovic, Embiid) sono stati costretti a perdere finora in carriera un numero combinato di partite equivalente a 9 stagioni (anche se LaVert per ora solo al College), e il più vecchio è Pekovic, solo 30 anni.
All’inizio la preoccupazione era evitare gli infortuni, poi è diventata recuperare da essi, quindi recuperare in tempi sempre più rapidi: ora quel che sta accadendo nella NBA induce a pensare che recupero totale e prevenzione delle ricadute sia la strada da esplorare. La NBA sta valutando scansioni del calendario meno severe riguardo a spostamenti e tempi da trascorrere in aerei/aeroporti, e per esempio è già stata leggermente dilatata la durata delle serie di PO. La frequenza di certi infortuni rispetto ad altri, la frequenza con cui certi problemi tendono a ripresentarsi ed altri no, la incidenza geografica (mi faccio male più a Minneapolis o Miami? Può dipendere dal tipo di parquet, dal clima esterno, dalla temperatura dell’Arena di gioco?) degli infortuni: è tutto allo studio da parte della NBA, che non lascia nulla al caso, ma è nello stesso tempo cosciente del fatto che nulla accade o migliora in un giorno e che spesso, in campo medico, basta pubblicare uno studio per vederne apparire in breve un altro che pare sconfessare il precedente. Dove possibile, l’Associazione ha aumentato la severità del proprio controllo: i test anti droga/alcol, la assoluta intransigenza delle procedure per concussione (un rigido protocollo attraverso cui ogni giocatore deve passare), il pensiero “prima la vita” che viene applicato nel caso di malattie come quella di Chris Bosh, che non viene “liberato” dallo staff medico degli Heat e quindi non può giocare, e la NBA spalleggia Miami in questa decisione. Tutto questo è positivo, ma pertiene ad un campo che di fatto non impedisce ad una tendinite di sclerotizzarsi (come accaduto per Reggie Jackson, fuori per 6-8 settimane a iniziare dal 3 di ottobre), o a LeBron James di sottoporsi (Finals perse 2015) a sforzi “mai testati da nessun essere umano”, citazione da un convegno medico svoltosi in Malesia dopo le suddette Finals. Il limite è di nuovo il corpo: il livello di velocità-atletismo-potenza dei giocatori, anche del più apparentemente imbelle (un Brady Heslip per esempio), combinato alla tecnica e alla dinamicità del gioco ha raggiunto livelli tali da sottoporre gli atleti NBA a stress inimmaginabili anche solo 5 o 6 anni fa. Aggiungete che la presenza mai così numerosa di 18-20enni implica un livello di freschezza notevole: le conseguenze possono essere anche pesantemente negative. Un diciottenne per quanto atleticamente stratosferico ha uno sviluppo ancora non ultimato, e un certo tipo di preparazione fisica, particolarmente severa, può essere efficace ma anche seminare il germoglio di infortuni futuri; dall’altro lato, lo sforzo che, quasi improvvisamente, è stato richiesto a 30enni per adeguare il proprio ritmo e la propria intensità al gioco attuale: anche qui ci sono i prodromi di infortuni che altrimenti, con altre sollecitazioni ed altri avversari, si sarebbero evitati. Non dimentichiamo che lo sforzo richiesto dalla stagione regolare non è paragonabile a nessun altro sport pro, per la combinazione richiesta di sforzo e durata dello stesso. Ripetiamolo: il limite è di nuovo il corpo applicato al Gioco, difficile trovare una soluzione a questo. Forse una totale attenzione della NBA anche su modalità e tempi di rientro (decisione non più lasciata solo alle squadre o al giocatore), insieme ad un calendario da 70-72 partite, potrebbero aiutare sensibilmente.