La commovente ed a tratti «cruda» intervista a Mao Santa realizzata dall’ottimo collega Marco Petriccione in occasione dell’Oscar is back

Tra i tantissimi commenti pubblicati su Facebook alla video-intervista di Oscar abbiamo scelto quello scritto da Riccardo Vosa perché l’abbiamo trovato puro, genuino e capace di sintetizzare lo stato d’animo più diffuso della tifoseria casertana… buona lettura

26 anni.
Per 26 anni, per puro amore, le parole che ascolterete in questo video, non sono state pronunciate.
Per paura della rabbia che non può non condirle.
Perché pronunciarle significa chiudere una volta per sempre una storia d’amore. E quando si è innamorati, si ha il terrore di accettare che l’amore sia davvero finito.
Ciò che Oscar racconta in questa intervista é il dispiacere e lo sdegno del tradimento, delle parole alle spalle, e di un trattamento che non meritava.
Di un fulmine a ciel sereno mentre immagini un futuro radioso fatto di sogni epici, di correttezza e di amicizia. Un’illusione, forse.
Nel mondo attuale qualcosa di simile non sarebbe mai possibile, con la legge Bosman e lo schifo mercenario dei procuratori.
Uno dei giocatori più importanti del mondo gioca in una squadretta di una piccola città. La porta sempre più in alto, a giocarsi le finali in Italia (miglior campionato europeo dell’epoca) e nelle varie competizioni continentali.
É un eroe romantico, rifiuta offerte dal gotha della pallacanestro mondiale. Ama.
È convinto che il suo gesto, il suo amore, siano apprezzati, ricambiati.
Crede che la sua non sia una scelta folle, come probabilmente gli avranno detto a Madrid, che il cuore, la sfida, un’impresa, valgano di più di un ingaggio molto più alto, o di mille titoli vinti da favoriti, con compagni stratosferici.
Crede nella vittoria dell’abnegazione, dei valori stessi in cui crede, la vittoria dello sport.
É l’estate del 1990. I mondiali di calcio italiani si sono chiusi con una grande delusione, tra mille polemiche e ettolitri di fiele, riversati su un’altra eccezione, un altro campione di livello mondiale che uno scherzo del destino ha messo nella stessa epoca, a distanza di una 30ina di km.
Oscar aspetta la fine delle vacanze per tornare a sfidare Pesaro, Milano, Bologna, le altre candidate al titolo.
Gli scugnizzi terribili, che con lui sono cresciuti e hanno varcato i confini nazionali, seppur giovanissimi, sono ormai maturi per vincere. Ricordo perfettamente le interviste in cui lui, prima ignaro, poi incrédulo, poi ferito, poi annichilito, commentava le voci sulla sua eventuale sostituzione. Noi ragazzini a Caserta sapevamo già tutto… E lui no!
All’epoca le società avevano il possesso del cartellino del giocatore, e quindi senza l’accordo col presidente non era possibile scegliersi un’altra squadra. A Oscar, campione di livello mondiale, all’uomo che aveva preso una squadretta di un posto senza alcuna storia a livello sportivo, all’uomo che per il sogno romantico di sentirsi parte di una città e di una sfida, per semplice amore, aveva rifiutato offerte delle squadre più importanti d’Europa e di andare in Nba, viene imposto di giocare in serie A2, in una squadra che lotta per la retrocessione. Per renderlo inoffensivo.
Tradito dai suoi compagni di squadra, tradito dal tecnico che aveva visto e fatto crescere. Tradito dalla società, che con la morte del Presidente Maggiò perde il collante della gestione economica e sportiva, andando poi incontro al fallimento morale ed economico. Oscar reagisce come un innamorato tradito. Incrédulo, senza neanche la forza di reagire. Per anni coltiva l’illusione di quell’amore, a distanza. Porta Pavia in serie A, macina record di punti e di classe e onestà, intoccabile, inscalfibile, esempio dentro e fuori dal campo. Mai si sarebbe separato dalla Juvecaserta.
È il primo a tirare fuori il portafoglio quando la sua vecchia squadra sta per scomparire, comprando migliaia di euro di mattoncini per il muro virtuale bianconero, che porta alla salvezza della società.
Non manca di ricordare continuamente i suoi periodi casertani, nelle interviste, su internet e in Brasile, dove poi ha chiuso la carriera.
La sua partita d’addio, però, la gioca a Caserta, in un Palamaggiò ormai dimenticato dalla città, orfana della squadra ormai fallita e relegata nei bassifondi di chissà quale serie minore.
Eppure, per la sua festa, il palazzo è pieno. Sono passati 13 anni, ma l’amore è sempre lo stesso. Coltivato sotto pelle, l’amore fa chiudere gli occhi, emoziona e toglie lucidità. “Avrei voluto dire queste cose anche all’epoca” – ha dichiarato ieri – “ma l’emozione non me lo ha permesso”.
E in questa intervista c’è un Oscar nuovo, un Oscar che ha conosciuto il male del mondo, che ha conosciuto la sofferenza, la malattia, e l’ipocrisia.
C’è un uomo che, un giorno d’estate di tanti anni fa, deve aver perso una parte di sé. È andato avanti, con una dignità e una fierezza unica, ha affrontato tutto ciò che è venuto dopo da grandissimo, ancora una volta. Ma quel tradimento, alle spalle, è ancora una ferita aperta.
Una volta che il dramma della fine di un amore si metabolizza, torna la lucidità e affiora la rabbia.
E a me quest’intervista ha rotto un’illusione, e ha provocato un grande dispiacere.
Ma oggi come allora, per me, esiste solo UN prototipo di campione, esempio nella vita ancora di più che nello sport in cui ha dominato.
Ed è lui. Oscar Schmidt