The Last Dance è finita. Viva The Last Dance.

Teoricamente c’era poco da sapere riguardo a basket e dintorni, prima di The Last Dance. Non credo, inoltre, alcuno si aspettasse gran rivelazioni o gran gossip extrabasket. Eppure, dopo la decima puntata, non è poco ciò che abbiamo imparato o abbiamo finito di imparare.

Il dettaglio principale è arrivato alla fine: MJ non è felice. Il rimpianto con cui parla della mancata chance di almeno provare un 7th Heaven è struggente, e l’interrogativo non ci scarnifica ma mordicchia anche noi. A pervadere tutte le 10 puntate dandone l’esatta dimensione, è la determinazione assoluta di Jordan, la sua fame, la sua stronzaggine competitiva. Perché onestamente: un po’ stronzo lo era (è?), vendicativo e quasi sempre incapace di perdono. Animale da agonismo assoluto ed implacabile: alzi la mano chi non ha notato il frame dello sguardo che il mezzo morto (in teoria) Jordan invia a Karl Malone uscendo dal TO dopo il quale MJ suggellerà il Flu/intoxication Game. Uno sguardo di predatore che sa già di aver la preda in gola, e la deride: uno sguardo che condanna alla sconfitta chi lo riceve, ancor prima di giocare. Lo sa, ed il motivo è: sono io, sono io che mi chiamo Michael Jeffrey Jordan; non deve aggiungere altro, non “refuse to lose”, non “la vittoria è tutto”, non yoga o meditazioni … “sono io” è sufficiente a spiegare i perché. Abbiamo conosciuto il dilemma che attanagliava chi si trovava a competere con His Airness e, occasionalmente, a batterlo: far finta di niente e mettere tutto per provare a batterlo di nuovo, o festeggiare e bullarlo fin che si può? Sembra incredibile come tutti abbian sempre deciso di prendere l’uovo oggi, e inviare a MJ messaggi non troppo rispettosi, che, si sapeva, non avrebbero fatto che motivarlo ancor più e rendere la sua vendetta più aspra. Lo sapevano, lo SAPEVANO che sarebbero stati agnelli sull’altare…ma lo facevano lo stesso, perché mettere doppio asfalto su Jordan era talmente impossibile, e gli interessati lo sapevano in maniera così profonda, che l’uovo oggi era un istinto insopprimibile, molto prima che una rovinosa decisione.

Abbiamo imparato, direttamente o indirettamente, cose su Larry Bird: il più rispettato da Jordan insieme a Magic. Era rispetto fra pari, diverso da quello rivelato per Kobe, che era rispetto nutrito anche da una dose di…chiamiamolo amor fraterno, se non addirittura paterno. Abbiamo imparato che Allen Iverson è come se non fosse mai esistito, almeno per il Jordan ufficiale e quello da docu-serie. Nella sua non ingenua stronzaggine Jordan sapeva anche riconoscere il torto: sono tra i miei preferiti i secondi in cui dice di essersi sentito “that small” facendo con la mano il segno di una misura piccolapiccola per aver menato in allenamento Steve Kerr, il più piccolo e gracile della formazione. Noi, che a volte ci facciamo distrarre e innervosire da una suocera rompipalle, abbiamo imparato che Jordan veniva a confronto ogni giorno con un centinaio di suocere e relative commissioni: giornalisti, domande, conferenze, pubblicità, Jerry Krause…non è un caso che nelle puntate dalla sette in poi la parola più usata, fuori dal gergo tecnico, sia exhausted. Infine, tornando alle prime puntate, abbiamo avuto il privilegio di poter gustare immagini del basket NBA e soprattutto di college davvero rare e preziose e commoventi, non solo dei Tar Heels per cui giocava MJ, ma anche, se non soprattutto, degli inizi di Scottie Pippen. Potendo constatare, dalle immagini e interviste di famiglia, che quel mento…importante…è davvero un tratto dei Pips. Grazie a Dennis Rodman abbiamo imparato cosa è un gomito e come si alza sia per un rimbalzo che per un buon Kamikaze.

Quindi, con grande valore giornalistico e documentale, The Last Dance ha insegnato molte piccole cose sconosciute, ed altrettante le ha completate: il personaggio di Jerry Krause, giornalisticamente e storicamente non positivissimo già di suo, ha trovato piena definitiva conferma anche nella insopportabile voce adenoidale del GM, voce che non esisterei a definire essa stessa, come il personaggio, perennemente sudata. Se non rivoluzionaria per fotografia o montaggio o per la scelta del meccanismo narrativo del flashback mescolato alle interviste alternate dei vari protagonisti, The Last Dance ha incarnato una caratteristica che non si trova spesso nelle serie e docu-serie. La costanza nella potenza, da alfa ad omega. Proprio come l’impatto della persona che in essa è raccontata, TLD è una docu-serie di memorabile POTENZA.