Charlie Recalcati gli è stato affettuosamente vicino negli ultimi giorni in ospedale a Mariano Comense cercando di alleviare le sofferenze passandogli al telefono Bora Stankovic col quale ha ricordato lucidamente la magnifica avventura del primo scudetto canturino. La brutta notizia gli è arrivata quando questo martedì mattina è giunto a Venezia per la presentazione alla stampa come coach dell’Umana Reyer. “Avevo 16 anni quando sono arrivato a Cantù, Tonino mi prese sotto la sua ala cercando di darmi buoni consigli per crescere e come giocatore. In quello scudetto era incaricato di marcare sempre il più forte…”.

Anche Tonino Frigerio ci ha lasciato, in una mattina calda di inizio giugno. Bella persona, buon giocatore, bella faccia da tenebroso attore francese. Da atleta tosto annunciava, tenace precursore, le grandi guardie che nel suo ruolo l’avrebbero seguito per la maggior grandezza della squadra canturina esaltata fino al primo scudetto dall’arrivo di un grandissimo del basket, Bora Stankovic, il Von Braun del basket (e della FIBA).

Quella squadra, insomma, che avrebbe anche annunciato l’arrivo di una generazione più fortunata, più vitaminizzata, più vincente fino ai massimi livelli in campo nazionale ed internazionale riuscendo a tenersi in piedi e a onorare fino ad oggi una storia unica nelle enciclopedie del basket. Di un paesotto laborioso come pochi, nemmeno capoluogo di provincia. E dare un senso al gioco del basket, palestra, impegno, squadra, risultati anche se spesso quando ascolto certe chiacchiere sul presente di quella invidiabile eredità lasciata dal sciur Aldo e la sua famiglia e da altri, come i Broggi e i Corrado, mi sforzo di credere che siano solo malelingue e rifiuto l’argomento. Proprio non mi interessa.

Il tempo è comunque galantuomo, forse qualcosa sta accadendo sotto il cielo dei canestri ma non per merito dei dirigenti di oggi e sono convinto che il basket a Cantù non andrà mai in rovina avendo creato persone di valore, esempi “sani” nello spicchio temporale delle società nelle quali hanno operato. Come appunto il popolare e un po’ timido Tonino, un campione capace di ritagliarsi una sua importanza ai fini dei risultati, nonostante la penombra fra due mondi, due generazioni, due fasi della pallacanestro che pur vicine erano un vero salto di metodi, logiche, scopi, interessi.

Ho un bel ricordo, l’ultima volta che l’ho incrociato con lo sguardo del signore baffuto, i capelli neri e folti, educato, riservato che non si dava arie, preferiva ascoltare piuttosto che sputare sentenze, e non diceva mai: “tutto sbagliato, ai miei tempi si giocava meglio.”.

Quanti sono stati i maggiordomi dello sport che hanno servito in maniera esemplare come lui la casa delle imprese e delle emozioni. Orgoglioso del senso d’appartenenza alla sua alma-mater, la Pallacanestro Cantù, come noi tutti che venivamo dopo la sua generazione ricordano con gratitudine la fase dell’impostazione tecnica e sportiva che non ci ha dato traumi esistenziali, ma regalato prove che superate diventavano sicurezze. Sicurezze che nemmeno un ateneo scolastico e buoni professori potevano assicurarci. E il mio pensiero va anche a un altro gigante, Gianni Corsolini, il saggio e generoso fregoli del basket che in queste ore con la sua leonessa, l’indomabile Mara, gli è vicino per superare una crisi del suo fisico.

Quando era in campo Tonino era un front-man, un uomo di prima linea, la manina d’oro fatta in casa soppiantato in seguito nel suo ruolo – cestisticamente – da Charlie Recalcati il quale poi lasciò la sua eredità ad Antonello Riva. Non aveva la stessa mano dell’uno né il fisico e la mano dell’altro ma il suo fisico era solido, da atleta vero, due molle nelle gambe, la grinta anche se catalogato fra i tiratori. Forse un pò rigido, un palleggio buono per appoggiare il play, essenziale e corto, un contropiedista nato con un buon jump, stacco da terra elegante, e capacità di entrare nelle difese in scivolamento, senza un grande dribbling, utilizzava la testa e il corpo solido non facendosi prendere dal panico e quindi non scambiando per birilli da abbattere i difensori che lo aspettavano dentro la loro area per mazzolarlo. Era infatti, quel basket, non ancora pronto al gioco dei blocchi, doppi e tripli blocchi, per sfruttare l’automatismo e l’occhio dei tiratori e la meccanica acquisita e perfezionata giorno dopo giorno in allenamenti via via più intensi. Bisognava anche saper portare la palla, serviva come utile appoggio del play, faceva molto movimento senza palla aspettando il suo momento e a Cantù, come ha raccontato Recalcati, era il francobollatore, i canestri non erano tutto.

Ha fatto parte della Pallacanestro Cantù dal 1958 al 1969, vincendo l’indimenticabile primo scudetto ’68/’69 e giocando anche con Nazionale l’Europeo del ’63, con 15 punti. Ha lasciato sempre un buon ricordo nei compagni e in chi l’ha allenato, non è stata una nuvola di passaggio ma una presenza importante.

Dopo Cantù si è spostato a Vigevano e ha giocato negli anni Settanta con la squadra allenata da Mario De Sisti di cui ha narrato uno dei giocatori, Stefano Albanese, il Supremo Aiace e altri campioni e amici nel libro “Cuore, Canestri e successi” che vale anche per la sua storia sul parquet. Stefano che lo ha avuto compagno anche col Brill Cagliari lo ricorda così: “E’ stato un campione apprezzato, sempre pronto a elargire consigli ai più giovani e non solo a quelli. L’ho apprezzato anche come amico a Cagliari quando vivevamo nella stessa casa. Ottimo difensore e pericoloso attaccante. Contattato da Sandro Spinetti, suo ex compagno al Brill, che aveva un’offerta dal Viganello lo segnalò alla squadra svizzera dove divenne il cardine e bandiera della formazione e successivamente anche tecnico del Bellinzona prima di ritirarsi nella sua Cantù per trasmettere passione e tecnica a tanti ragazzi”.

Per Leandro Freguglia, suo giovane compagno a Vigevano “era il primo a entrare in palestra e l’ultimo a lasciare il campo e mi ha insegnato l’umiltà”, Sandro Spinetti era “una persona semplice ed educata, ottimo giocatore e grandissimo amico per tutti”.

Ho saputo della sua scomparsa dalla newsletter mattutina di Dante Gurioli, al quale vorrei proporre di scrivere una storia settimanale dal titolo “Il Diavolo e l’Acqua Santa”. Quando “Mister Springfield” dove manderei in pellegrinaggio i “nuovi” dirigenti del basket, mi passa queste brutte notizie, capisco che mi solletica a prendere la penna. E allora spengo il trattore o ma motosega o chiudo il file sul quale sto lavorando e dedico volentieri qualche riga per la memoria e non –giammai – alla memoria affinché non manchi il vuoto quando siamo già dentro il vuoto sperando di non finire nel baratro.

Lo faccio per il rispetto di giocatori come il Tonino e di quel basket che anche nella sua “naivitè” nonostante qualche cravatta “osè” aveva stile, mentre oggi i personaggi son o più grevi: demiurghi (presenti) arrestati, accuse (da provare) e chiacchiere (da documentare) che fanno accapponare la pelle ove l’indagine andasse là a parare. E’ basket gelido, insensibile, che si sta massacrando, perché le persone giuste come Tonino hanno lasciato il posto a gente che ho visto solo nei film sulla frontiera. Alla guerra come alla guerra dicono i francesi.

Spero che la brutta malattia che l’ha portato via a 74 anni non l’abbia fatto soffrire troppo, e che gli suoi allievi del Playground Cantù, formazione del campionato di Promozione col quale ha tenuto vivo il rapporto con l’amato sport gli siano stati vicini e che lo ricordino come un mito,parola ormai scontata nel vocabolario dei giovani d’oggi che però calza a pennello in presenza di figure che hanno sempre fatto sempre una bella figura. In campo e fuori. Alla famiglia sincere condoglianze dal Dream Team di Baskettiamo coi suoi lettori.

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