La prima stagione di Ime Udoka ai Celtics, la sua prima da head-coach, non sta presentando risultati brillantissimi.

Tuttavia il coach, a mio parere, sta incidendo e scalfendo alcune abitudini che definirei non solo eredità della gestione di Stevens, ma proprie di tutti gli ultimi 30 anni di Boston dal ritiro di Bird in poi. Non è necessariamente un valore avere minutaggi diffusi, non puoi restare “promessa” in eterno, impegnarsi non basta se non si traduce in efficacia sul campo, i banner sul soffitto non danno alcun diritto e soprattutto non rendono lecita la puzza sotto il naso: Udoka sta tentando di eliminare questi pesanti fraintendimenti dal DNA di Boston. Una sfortuna imprevista sono state le 14 gare (su 27) che Jaylen Brown, tra infortuni e Covid, ha dovuto saltare. Se Tatum è la patina brillante che spesso diventa sostanza, Jaylen è la carne, il tessuto, il migliore dei Celtics anche se non il più luccicante. Stanotte vs MIL, Brown era al ritorno dopo 13 gg inactive: Udoka ne deve essere stato molto contento, dal momento che è vero quanto segue. Brown ha tirato o fatto l’ultimo passaggio in 8 dei primi 11 possessi dei Celtics, ha lasciato il campo per un contatto ginocchio-ginocchio vs Middleton coi suoi sopra di 2, è ritornato in campo a fine periodo e BOS era sotto di 10. Nel secondo quarto, inizio della rimonta Celtics, ha tirato o fatto l’ultimo passaggio in 5 dei primi 6 possessi. E’ evidente l’intenzione di dare a Brown le chiavi della squadra.

Jaylen è un tipo particolare, intelligenza da Harvard o MIT, e questa qualità gli ha sempre procurato parecchi problemi. Al liceo, quando completava o correggeva quel che i professori (e una professoressa in particolare) insegnavano, gli veniva risposto che era solo un atro thug che si credeva chissà chi: quella prof gli disse “fra 3 anni verrò a trovarti in prigione”. Al college, una edizione di Cal molto promettente (c’erano anche Jabari Bird e Ivan Rabb) ma alla fine solo lui è davvero esploso nella NBA, i suoi stessi allenatori ammonivano gli scout NBA dicendo che il ragazzo aveva grande talento ma era un po’ troppo intelligente e amante dello studio per farcela davvero. Insomma, non andava mai bene, ma la testa serve sempre perché vuol dire che se ti ci metti impari: come ha fatto Jaylen col tiro da fuori. Il primo anno a Boston non faceva un jumper che fosse uguale al precedente, la tecnica era completamente da costruire: oggi ha il 37.7 da 3 in carriera. Bisogna riconoscere che lo staff dei Celtics, e Brad Stevens in primis, ha capito bene il carattere di Jaylen, regalandogli momenti che per lui erano perfetti, la ricompensa e iniezione di fiducia ideali. Da rookie, per esempio, fu chiamato a pronunciare il discorso dell’inizio del Black History Month, uno dei momenti rituali più sentiti. Oggi, nonostante la presenza di una prototipica Star come Tatum, di un cagnaccio da locker come Smart e di un vecchio saggio come Horford, è Jaylen il grande capo, il guru a volte un po’ criptico, dello spogliatoio dei Celtics. Eppure, tornando al lavoro di scuotimento che Udoka sta operando, nessuno, nemmeno lui, è certo di trovarsi a Boston alla fine dell’anno. Purtroppo non siete più abituati a leggere più di 3000 battute, quindi per completare il discorso sui Celtics attuali, vi rimando a una prossima puntata; MA vi consiglio un film, Blue Jay  (2016, con la bellezza insieme accecante e umile di Sarah Paulson), per un flash significativo sul cambiamento del nostro “attention span”.