In occasione della gara con il Panathinaikos, la sua ex squadra, l’Olimpia Milano celebrerà l’ingresso di Nando Gentile nella Hall of Fame sociale. Nando sarà anche il protagonista del “Game Program” in distribuzione al Mediolanum Forum al quale ha concesso questa intervista. Nando Gentile, lei arrivò all’Olimpia in circostanze particolari, non fu tanto un acquisto ma il trasferimento della squadra di Trieste in quella di Milano.

“Per me era una doppia sfida, ero casertano e avevo giocato tre finali scudetto contro Milano quindi c’era una sorta di rivalità in atto e poi ero sempre il ragazzino del sud che si cimentava nella grande metropoli. Sapevo che sarebbe stata una battaglia. Poi venivo con il nucleo di Trieste: in pratica c’erano due squadre e si doveva scremare. Nel farlo rimasero fuori giocatori come Djordjevic, Pittis, Antonello Riva, per non dire di Mike D’Antoni come allenatore. La gente di Milano disorientata. Non fummo accolti con grande entusiasmo, ma c’era differenza tra società, dirigenti e giocatori”. Però non impiegò tantissimo a conquistare il pubblico di Milano. “Sì, perché come sempre bisogna scindere il giocatore, l’atleta dall’uomo e una volta conosciuto l’uomo le cose cambiano. Alla fine sono stato apprezzato come giocatore e come persona per quello che davo. Fu difficile all’inizio, qualcuno diceva che un terrone non poteva giocare nell’Olimpia ma fu brava la società a imporsi e decidere che io, terrone, sarei stato il capitano. Fu ancora più scioccante all’inizio ma poi tutto è andato bene”. Quand’era a Caserta cosa rappresentava per lei l’Olimpia? “Era un esempio per tutti. Tutti lottavano ma loro vincevano. Quando c’era da giocare duro, erano i migliori. Li incontravamo in precampionato e li spazzavamo via, tutti dicevano che erano finiti, che erano vecchi e poi arrivavano le gare da vincere e le vincevano loro. Era la squadra di D’Antoni, Premier, Meneghin, di Dan Peterson. Noi li vedevamo come modelli e cercavamo a Caserta di ricreare quel modello fino a quando nel 1991 finalmente li abbiamo battuti. Avevano mentalità vincente ed erano un gruppo: si vedeva che lo erano”. Nel 1991 portò la Juve alla vittoria in gara 5 di finale al Forum. “Una soddisfazione enorme, perché sapevamo che sarebbe stata l’ultima occasione di farcela. Era la nostra terza finale contro Milano e non potevamo perderla ancora. In estate la società aveva fatto scelte coraggiose, rinunciando addirittura a Oscar. Ma il general manager Sarti fu bravo a prendere due americani di altissimo livello come Shackleford e Frank. Marcelletti bravissimo ad allenare una squadra che per 8/10 era composta da ragazzi campani, perché io consideravo anche Dell’Agnello un casertano. Anche per questo fu una soddisfazione enorme, entrammo nella storia e se ne parla ancora adesso”. Forse a Milano avete vinto meno di quanto avreste potuto? “Non lo so, perché comunque arrivammo che eravamo una squadra giovane, basti pensare a Bodiroga che faceva lo straniero a 19 anni. Poi pagammo il passaggio traumatico da Trieste a Milano a livello ambientale. C’erano ragazzi come De Pol o Cantarello, Fucka che lasciavano un posto confortevole per sfidare la metropoli. Non era facile, poi non fummo fortunati in un paio di finali di Coppa Korac. Ma ci togliemmo delle grandi soddisfazioni lo stesso. Tanjevic era uno che voleva bene ai giocatori, creò una vera famiglia e mischiammo bene i valori voluti da Tanjevic con la professionalità, la mentalità vincente milanese”. Che squadra era quella del 1996, scudetto e Coppa Italia? “Super, perché prendemmo un fuoriclasse come Rolando Blackman che non solo era un campione ma si allenava in modo eccezionale. Per tutti vedere un fuoriclasse allenarsi così a 37-38 anni fu di grande stimolo. Io avevo quasi 30 anni a quel punto ma c’era gente più giovane che rimase impressionata come Bodiroga, Fucka, Portaluppi. Non fu una marcia trionfale ma a quei tempi c’erano tante squadre forti e finire quinti in regular season non era così difficile. Però negli ultimi due mesi di stagione eravamo fantastici, giocavamo ad occhi chiusi. Tanjevic con i nostri preparatori atletici ci portò al massimo della condizione fisica e mentale nel momento chiave della stagione. Penso che nei playoff fossimo invincibili”. Poi è arrivato il Panathinaikos. “A Milano venne a giocare Giorgios Sigalas, era un mio amico. Mi presentò il suo procuratore e questo voleva convincermi ad andare in Grecia. Ma io avevo firmato un triennale con Milano, stavo bene e pensavo di finire la carriera all’Olimpia. Inoltre avevo due bambini piccoli e andare all’estero mi sembrava complicato. Però avevamo giocato una semifinale di Coppa Europa contro il Panathinaikos di Byron Scott e contro di lui avevo giocato due grandi partite. La seconda, in casa, servì a rimontare e qualificarci. Ci saranno state 500 persone, non ci credeva nessuno nell’impresa. A fine stagione, la società mi comunciò che non poteva più tenermi. Potevo andare a Varese ma da capitano dell’Olimpia non mi sembrava bello e sarebbe stata un’altra battaglia, un altro ricominciare da zero. Così un giorno, in auto, passavo da Roma, parlai con mia moglie e decisi di fare una telefonata. Dopo 50 chilometri, mi chiamarono per dirmi di andare ad Atene: il Panathinaikos mi voleva”. Fu difficile ambientarsi in un’epoca in cui pochi italiani andavano all’estero? “Al Panathinaikos c’era un professionismo estremo e questo aiuta. Poi aiutano le vittorie, a Milano come ad Atene. Io conoscevo già Bodiroga e Dino Radja. Il nucleo greco era molto forte ma ci unimmo bene, c’era alchimia e vincemmo tre scudetti. L’organizzazione era senza eguali, magari con tempi un po’ lenti ma si faceva tutto. Io da meridionale ho sempre pensato di avere un feeling particolare con i greci. Sono stati tre anni magnifici, abbiamo vinto un’Eurolega, giocato due finali. Anche la famiglia era felice, Stefano cominciò a giocare a basket ad Atene, Alessandro andava alla scuola americana e si trovava bene anche lui”.

Ma il miglior Nando Gentile, Hall of Famer Olimpia, dove l’hanno visto? “A Caserta ho giocato una decina di anni, avevo il vantaggio di essere a casa e potevo permettermi più cose. E’ stata l’esperienza più lunga quindi più importante ma cimentarmi in grandi città, club blasonati, ai massimi livelli, a Milano e Atene vincendo l’Mvp dei playoff, mi ha completato. Diciamo che con compiti e modi differenti sono stato al top in tutte queste tre città”.