Giannino Asti (*), una vita per il basket o il basket come fonte di vita.

Il Basket è un’altra cosa”, o forse un tempo era un’altra cosa e senza indulgere alle nostalgie, avvitare le proprie convinzioni al proprio tempo. “Il Basket è un’altra cosa” ha scritto più volte Philis Roth, in maniera scadenzata, nell’ultimo best-seller per esprimere il suo amore e il simbolismo che sprigiona questo meraviglioso sport dove, come non mi stanco di dire, nel quale l’elevazione è un momento di consacrazione. Quasi un’eucaristia sportiva, per afferrare e impossessarsi del concetto di levità, sfuggire i tentacoli dell’avversario e della forza di gravità. Philip Roth, romanziere di origini ebraiche, è uno dei maggiori scrittori americani, di fine secolo e nel suo bellissimo romanzo (Pastorale Americana) racconta la storia in cui il protagonista, l’erede di una famiglia di immigrati dell’Est che prende forza dal basket nel quale in gioventù è una star, riesce a tenere in piedi, con mille difficoltà, l’azienda paterna nell’evolversi dei tempi e delle generazioni a volte violento.

La notizia me l’ha data Stefano, il barone di Mongrifo con la consueta sensibilità derivante da una bella educazione famigliare. Il Supremo Aiace, il fighter di Vigevano, è un po’ il collante dei Maturi Baskettari che giustamente non vogliono scendere nell’agone per salvare il Basket Spaghetti e dove il darwinismo si è espresso forse nella maniera più sorprendente e sconcertante, tanto che gli imprenditori sono sempre più rari e maggiori invece i “prenditori”, certuni si pagano uno stipendio (che ritengo lauto), cosa che una volta non succedeva. E le cose andavano molto meglio, soprattutto le istituzioni erano tutte più credibili, trasparenti, familiari, piene di buon senso, tanto che si diceva che se il calcio era la religione degli italiani, il basket era un’illuminata setta religiosa. Vuoi vedere che lo scadimento nel segno della managerialità, parola di cui ci si riempie la bocca, ci ha allontanato da quella virtuosità italiana che faceva del basket lo sport di una certa generazione italiana che tendeva all’istruzione, all’America, un modo che ci ha fatto diventare i primi in Europa e poi ripiombare nel medioevo del gioco.

Il 14 di febbraio è il giorno di San Valentino e la notte è un plenilunio infreddolito, ci sono poche stelle e aspetterò qualche giorno per vedersi accendere il cielo, mentre vorrei che tutti quanti che soffrono come me per questa perdita inestimabile accendessero una luce, la luce del ricordo, della gratitudine e della speranza perché si spera che le cose cambino veramente, si impieghino maggiormente le persone di buon senso e un buonsenso generale, e non si arrivi al più sfacciato dei trasformismi.

Sono rabbioso e pesto per la ferale notizia, sapere che si conclude una vita tanto piena di generosità in una stanza grigia d’ospedale, soffrendo tanto fisicamente e moralmente. Per questo cerco rifugio nella buona letteratura per lenire le mie pene e ricordare Giannino Asti, il piccolo principe dei fondamentali, sempre impeccabile, le giacche di tweed di ottimo taglio e i maglioncini di cashmere. E’ lui che ci ha fatto diventare adulti e cresimati nell’amore per questo gioco, attraverso il suo paziente e benevolo insegnamento.

Quando mi chiedono di parlare di basket e raccontare la mia piccola storia, cito come mia Alma Mater la Robur et Fides della quale Giannino è stato il centro gravitazionale: allenatore, “sacerdote”, motivatore, educatore, assistente sociale, fratello maggiore o secondo padre. Ha proprio ragione uno dei suoi migliori discepoli, Pippo Crippa, giocatore generoso e intelligente degli anni del boom che come me e tanti altri ha il cuore strappato. Penso che un simile sentimento provino i grandi campioni che ha scoperto o affinati, Ossola, Rusconi, Meneghin, Bovone, Ivan Bisson, c’è qualcuno che forse, a parte i CT e qualche eccezione, abbiano avuto questa fortuna e questa responsabilità?. “Non avendo una famiglia tradizionale, tutti i giocatori erano la sua famiglia, ha saputo crearsi una famiglia enorme che gli sarà sempre riconoscente – questo il tributo di Crippa. “ Penso che ci abbia fatto crescere, non solo come giocatori di basket, perché ti faceva ragionare. Ben visto da tutti, trattava tutti con gentilezza, anche in un sistema professionistico come ai tempi della Mecap Vigevano , grazie alla sua eccezionale umanità, ha creato un modo positivo di pensare e fare sport. Era sempre positivo, con lui non potevi non migliorare di sicuro”.

Aveva la passione anche delle corse dei cavalli, ma ha creduto che la pallacanestro fosse un dono del buon Dio per crescere la gioventù, e che il senso della competizione avesse bisogno di una preparazione tecnica, la conoscenza e il sacrificio, e dalla sua scuola uscisse un buon medico, un buon avvocato, un buon giornalista, e ovviamente un buon giocatore di basket ma soprattutto brave e oneste persone e cittadini esemplari. Il basket era un valore sociale nuovo, che raccoglieva in fondo anche creature gigantesche che solo 50-60 anni fa venivano visti come fenomeni da baraccone. Ricordo, ad esempio, il dolore che provocava in Bovone , 210 centimetri ben plasmati, quando gli chiedevano “Lei che è così alto, mi sa dire di lassù che tempo fa?”.

Anche se non si è mai lasciato tentare dal posto di lavoro sicuro alla Wolksvagen e doveva fare tutti i giorni la spola fra l’ufficio, responsabile ricambi di viale Certosa, e Varese per allenare le squadre della Robur et Fides e in seguito svolgere tanti altri ruoli preziosi, Giannino Asti è stato anche uno dei più grandi allenatori-seminatori della pallacanestro italiana.

Io sono entrato in una palestra di basket a 11 anni, mi facevo tutti i giorni 12 chilometri a piedi da Casbeno, la campagna a ovest di Varese, all’Oratorio di San Francesco d’Assisi che era il playground sul quale hanno iniziato tanti campioni, come Ossola il Von Karajan del basket, e Dodo Rusconi al quale l’impeccabile Giannino, mai un urlo, una frase sbagliata, quel grido oratoriano insistito “forza ragazzi!”ricordo, diede l’unico calcio nel sedere “accrescitivo” fra tutti i suoi allievi. Dodo Rusconi che della squadra roburina dei due titoli tricolori allievi era il giamburrasca sarebbe stato come coach l’Obradovic italiano, ma questa è la terra dei cachi e dove uno sport tanto scientifico, logico, salutare viene affidato a chi non l’ha mai praticato, mentre gli slavi hanno avuto successo con la stessa disciplina che si respirava alla Robur et Fides e mettendo i loro ex giocatori ai posti di comando. Vogliamo parlare di quanti grandi e giocatori abbiamo perso?. E’ stato come al Palio di Siena, per pericolo che si fosse un cavallo dominate si e’ livellato al basso. Tornando al valore formativo del calcio nel sedere, come diceva il grande Jim McGregor , “è un ottimo mezzo per avanzare almeno di un metro, per cui non posso fare a meno di ringraziare anche tutti i presidenti che mi hanno dato il benservito”. A proposito: ne ho preso anch’io uno, edificante, da Cesare Rubini, non mi vergogno a raccontarlo tanto mi è stato utile. E altri ne ho presi metaforicamente e anche loro mi hanno insegnato qualcosa, che il legno del parquet era sempre più lucido ma lo stile e il piacere del gioco non erano più gli stessi.

Dal playground sono arrivato subito alla prima leva, il discorsino di Gianni Asti che ci consegna al suo assistente che si chiamava Guglielmi. Se per due volte commettevo lo stesso errore, mi metteva spalla al muro, lui ritto e severo, un trentenne atletico ti tirava un missile e se non riuscivi a trattenere il passaggio dovevi correre per 20 minuti fuori dalla palestrina di viale Como, vicino alle stazioni varesine, e mi ricordo che dopo una terribile nevicata tornai a casa coi geloni e mi presi uno schiaffo anche da mio padre. Ancor oggi sorrido pensando all’utilità di quella trafila spartana per imparare i fondamentali, gli stessi che predicava Elliot Van Zandt, il primo maestro di basket arrivato in Italia nel Dopoguerra. Per i primi sei mesi, due allenamenti settimanali, fondamentali, fondamentali, partenza in palleggio, palleggio in traffico, virata, dai e vai, dai velo e vai, passaggio schiacciato a terra, passaggio baseball per il contropiede. E non solo con la mano naturale, ma anche quella mancina. Arresto e tiro, sospensione, tiro appoggiato al tabellone. Dopo sei mesi di utilissime penitenze (“no pain no gain” è il motto dei maratoneti americani) sono stato scartato, ho trovato posto in un’altra squadra ,però quell’esperienza mi ha forgiato, mi ha fatto capire il valore educativo, mi ha marchiato e il mio rapporto con Gianni Asti è rimasto come giovane giornalista del quotidiano locale, spesso in trasferta con la mitica squadra della Prealpi che allora militata nella Serie B e promossa in serie A giocò un basket spumeggiante “un basket di corsa” che è diverso del “corri e tira strangers in the night”, nella notte del basket spaghetti, di qualche coach di oggi.

Giannino era l’unico, il 15 luglio, San Enrico imperatore, a farmi gli auguri per il mio onomastico, più che un vezzo, era un segno gentile per farmi capire che gli auguri di compleanno dopo una certa cifra sono dei macigni, mentre ricordare l’onomastico è un segno di amicizia profonda. Bontà sua, spesso ricordava che nelle trasferte, quando la squadra sonnecchiava sulla via del ritorno, io in fondo al pullman io tichettavo sulla la mia portatile l’articolo che dovevo consegnare alla Prealpina. “Per la Robur hai fatto quanto un grande giocatore”, mi diceva facendomi arrossire. E contraccambiavo, dicendo quello che ripeto oggi a Umberto Vezzosi, altro grande magister: “Gianni, uno come te in America sarebbe stato un allenatore da un milione di dollari all’anno, come minimo i gesuiti ti avrebbero fatto allenare St.John’s, che coppia avresti fatto con Lou Carnesecca”. Come per Ranko Zaravika, non ha mai vinto titoli italiani di Serie A, ma ha costruito giocatori di serie A e una scuola di pensiero.

Quanti bei ricordi, era il tempo delle trasferte in B nell’anno della promozione, quando si giocava ancora sui campi all’aperto, come a Borgotaro, e non vi dico degli inverni nevosi della Val di Taro parmense. E quella squadra fatta in casa, con il macellaio Tozzini play, la manica di Dodo Crugnola e Vaccaro, il grande cecchini, entrò anche nella storia del gioco grazie alla zona bottiglia, 1-2—2 inventata da Asti. Sono contento che sapendo delle sue condizioni di salute, il basket italiano gli abbia tributato pochi giorni prima di lasciarsi tutti un po’ smarriti e orfani, , l’onore della All of Fame.

Mi spiace non poterlo accompagnare nell’ultimo viaggio, lunedì alle 15 nel Santuario del santissimo Crocifisso di viale Certosa, la via che percorreva tutti i santi giorni per andare a Varese e veder crescere i suoi ragazzi.

“Anche da un brocco come me, arrivato sul campo da basket solo a 16 anni ha tirato fuori un giocatore, anche Meneghin gli deve molto. E’ indimenticabile la squadra degli sbarbatelli quando arrivati in serie A , lanciò i giovani e con i fratelli Gergati, Veronesi, Rodà senza l’americano infortunato giocammo una bellissima pallacanestro di cui ancor oggi siamo orgogliosi”, racconta ancora Pippo Crippa che fra i tanti aneddoti ama ricordare anche come Giannino sceglieva le persone. “La Mecap Vigevano stava provando l’americano, e Asti mi mise in camera assieme a Clyde Mayes. Quando mi chiese cosa ne pensavo come persona, gli raccontai che mi aveva colpito una cosa: prima di dormire si era messo a pregare. Lui disse: questo fa per noi…”.

Caro Gianni, spero tu sia arrivato velocemente lassù poggiando sugli scalini di granito che hai costruito: uno scalino, una persona.

encampana@alice.it

(*) Gianni Asti è scomparso venerdì 14 febbraio, nel pomeriggio, all’ospedale milanese di Niguarda  Gianni Asti. Il 25 marzo avrebbe compiuto 79 anni. Allenatore e poi responsabile tecnico della Robur et Fides Varese, ex cestista italiano. Ha allenato nella massima serie italiana la Gamma Varese e la Mecap Vigevano (1977-78) con promozione in A1. Il 12 febbraio 2014 è stato inserito tra i membri dell’Italia Basket Hall of Fame.