Al primo tentativo, senza bisogno di ulteriori match-point, i Nuggets vincono il loro primo Anello NBA: un viaggio di 47 anni, iniziato nella ABA.

1 – MAYHEM. In lingua inglese c’è Chaos e c’è Mayhem, che è molto peggio. Mayhem è la parola che trovate nella Bibbia quando la cosa si fa pesante e di mezzo ci sono ira, vendetta, distruzione, punizione. Gli ultimi 9 mins di #5 delle Finals sono stati Mayhem, non basket. Diciamo che ci sono stati una quarantina di possessi totali: sono stati 80 falli non fischiati, 200 contatti permessi che, durante la stagione, non erano stati permessi. Certo, l’emozione e la manhood sono state notevoli, ma non è stato basket, nemmeno lontanamente.

2 – CAZZATE. Le grandi cazzate non vanno mai dimenticate. L’uomo che ha vinto il Bill Russell Award e contribuito a portare il primo Anello NBA a Denver, fu definito, 7 anni fa, molto meno forte di Tessitori. Posso dire che è un momento in cui tante cose non vanno dimenticate nel nostro paese, la cazzata di Michelini è una di quelle. Un’altra è quella di Sacramento, che aveva Malone e lo ha lasciato andare. Malone è il coach che aveva trovato il modo di tenere concentrato Cousins, e aveva creato la (purtroppo breve) leggenda di IT4: il proprietario dei Kings ributtò, otto anni fa, la propria franchigia all’età della pietra licenziando il coach e lasciando partire mezza squadra.

3 – PORTER. Quando ha imbucato la tripla del primo vantaggio Nuggets, tripla di prima intenzione, in transizione dal palleggio, era reduce da 13 padelle in fila oltre l’arco. Personalità, dimostrata anche nelle fasi precedenti della partita. Quando infatti Gordon aveva commesso il terzo fallo, e Jokic il secondo, era stato MPJr a prendere la responsabilità sulle spalle, e non da 3 ma tagliando e colpendo il pitturato. Era pronosticato come il terzo violino della squadra, è stato il quinto: ma in mezzo a difficoltà inattese è riuscito a emergere lo stesso, e probabilmente ha imparato molte cose. Su sé stesso e anche su quello che può fare in campo. E non dimentichiamo che tre anni fa si è in pratica rifatto la schiena.

4 – JAMAL. Un altro che poco più di un anno fa era appena capace di appoggiare i piedi a terra. A memoria, negli ultimi 10 anni solo il ginocchio di Klay ha sopportato un infortunio peggiore. Però sia il Warrior che il Nugget sono tornati per vincere un Anello. Delle Finals di Murray voglio ricordare in particolare due cose: il rapporto ass/perse di 12:1 in #4, quella decisiva (MAI nella storia delle Finals una squadra ha rimontato sotto 3-1), e la media di più di 6 rebs/gara, una media che lo avvicina alla eccellenza inesplicabile di Steph.

5 – TREMORI. Come naturale, forse, che fosse, i Nuggets hanno provato a battersi da soli prima di scrollarsi da dosso esitazioni e paure. Nel primo half 10 palle perse (4 nel secondo): una media degna di chi ha Westbrook e Harden a roster. Inoltre: 1/15 da 3 (nel secondo tempo 4/13) e 9/19 ai liberi prima del 4/4 nei secondi finali che ha garantito l’Anello.

6 – COACH MALONE. Grandezza: 3 minuti dopo aver vinto, durante la premiazione, MM ha detto, arringando i fans, che i Nuggets non hanno finito, che 1 non basta, che vogliono di più. Questo è abbastanza insolito su quello stage, di solito avviene nelle interviste due o tre ore dopo la gara, ma è un chiaro tentativo di creare una cultura Nuggets. Si tratta di un interessante tentativo, perché questa formazione ha talento, senza dubbio, ma in gran parte proveniente da uomini non pronosticati (Jokic), fortemente colpiti da problemi fisici e infortuni (MPJr, Murray) o non appartenenti alle alte gerarchie dei pedigree NBA (KCP, Brown, in parte Gordon). Il più titolato, DNA ereditato da uno dei santoni del coaching USA, è proprio Coach Mike. Un bunch di gente molto particolare, che potrebbe riservarci sorprese se saprà rimettersi in tempo dalla gioia. Sono nuovi, questi Nuggets, ma non supergiovani: a parte il rookie Braun, solo Porter Jr ha meno di 26 anni.

7 – KCP. Due Finals, due Anelli. Non ha brillato nella serie, ma stanotte è stato il grande equilibratore, quello che ha saputo mettere, nei momenti giusti, i panieri necessari e, soprattutto, con la necessaria naturalezza per far capire che, a basket, era più forte DEN. Una tripla all’inizio, una alla fine (poi rivelatasi un lunghissimo 2), e in mezzo due jumper old-school.

8 – OFFENSE. Oggi era giusto tributare lo spazio quasi tutto ai vincitori. Di MIA voglio segnalare la (non) prestazione offensiva. Hanno scritto 89, con soli 38 pti nel secondo half, solo 18 nel 4’Q. I 51 del primo tempo hanno parzialmente mascherato un evidente dato di fatto: erano stati alimentati solo dalla sferzata di velocità impressa dall’ingresso (molto prima del solito, poco oltre metà primo periodo) di Lowry. Quando, nel secondo tempo, Lowry è calato e MIA è tornata al gioco “palla a Jimmy”, gli Heat hanno perso la gara, esattamente nello stesso modo in cui avevano perso le Finals in the Bubble. Certo, allora Butler era stato più sfavillante, ma accadde in parte anche perché c’era Herro, pur soltanto alle prime armi. Gli Heat avevano, inoltre, ricevuto ben 12 dei 51 (più di un quinto del totale) da soli 4 possessi: due triple di Lowry in faccia / su errore di Braun e due And-1 di Bam in faccia / su errore di Jeff Green. Quindi vs la panchina di DEN. Grandi meriti a coach e grinta e difesa della squadra, ma a basket si vince con l’attacco, e MIA deve riflettere anche sul fatto che non è tutto oro quel che Adebayo porta. I suoi 22+ di media nelle Finals fanno un figurone messi così, meno se citati come 110 pti, meno ancora se considerati provenienti da 99 tiri di cui solo 45 infilati.